Provocazioni statunitensi a Taiwan e l’imperatività di una desclation

di Stefano Araújo

Lo scorso 2 agosto 2022 la speaker della Camera dei Rappresentanti americana, la democratica Nancy Pelosi si è recata a Taiwan per una visita ufficiale, che le ha permesso di incontrare direttamente vari rappresentanti istituzionali dell’isola, in nome di una fantomatica difesa della suddetta “democrazia” dell’isola che rivendica l’indipendenza dalla Cina. Che poi si possa parlare di democrazia a Taiwan è qualcosa di anomalo. Il dato concreto è che la visita ufficiale di Nancy Pelosi rappresenta un’ulteriore provocazione nordamericana nei confronti della Cina guidata da Xi Jinping e dal Partito Comunista Cinese. L’intento statunitense è chiaro: ostacolare in ogni maniera il gigante cinese, leader di un mondo multipolare emergente e non più unipolare a trazione occidentale. Gli Stati Uniti, che stanno perdendo il confronto con la Cina in diversi ambiti economici, soprattutto in quello tecnologico, spingono per arrivare allo scontro totale pur di mantenere le proprie posizioni e la propria egemonia imperiale. Scontro che prevede pure l’opzione armata, cosa da tenere in conto se confrontati con la loro forte presenza militare nel Pacifico e tra il Giappone e la Corea del Sud. Il rischio è appunto che si crei ad hoc delle operazioni militari di tipo “false-flag”, come già accaduto in passato, per “legittimare” un eventuale conflitto armato.

Gli Stati Uniti, con questa palese provocazione e per mezzo di certe affermazioni fatte dalla stessa Pelosi contro la Repubblica Popolare Cinese ed i suoi leader, stanno violando uno statuto internazionale riconosciuto dalla stragrande maggioranza dei membri dell’ONU, tra cui lo stesso paese nordamericano, ossia la Politica di una Sola Cina, affermatosi nel 1971 tramite la Risoluzione 2758 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questa risoluzione prevede il riconoscimento internazionale di un’unica Cina, rappresentanta dalla Repubblica Popolare Cinese, e di Taiwan come parte integrante del territorio cinese. È fondamentale ribadire e difendere tale concetto, perché l’alternativa, come andremo a vedere, è il conflitto su larga scala.

Più volte recentemente gli Stati Uniti hanno detto chiaro e tondo che il loro nemico numero uno è la Cina, e che sono pronti ad utilizzare ogni mezzo per bloccare l’ascesa della potenzia asiatica, e di riflesso l’ascesa di un ordine mondiale multipolare. Le provocazioni a Taiwan fanno parte integrante di questa strategia di confronto. Già oggi viviamo in Europa una guerra di procura in Ucraina fomentanta dallo stesso campo atlantico, per cui sarebbe oltre modo disastroso se si arrivasse a una terza guerra mondiale e allo scontro tra le due grandi potenze partendo da caso di Taiwan. Questo è il momento più che mai necessario di mobilitazione di tutti i sincerti pacifisti e dei vari movimenti per la pace che fanno capo al World Peace Council. Bisogna ostacolare con ogni forza in nostro possesso il piano bellicoso statunitense che dall’est europeo vuole estendersi al Pacifico. Nel caso della Svizzera, non bisogna fare l’errore commesso col caso Ucraino, bensì mantenere la propria neutralità per offrire il dialogo tra le parti, ma soprattuto è imperativo evitare di partecipare a possibili sanzioni relazionate con la crisi di Taiwan. In conclusione, è la stessa sopravvivenza dell’umanità a rischio, per cui bisogna denunciare queste provocazioni, mobilitarsi contro l’imperialismo atlantico, e chiedere il rispetto scrupoloso delle risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.